La prima pagina dell

L'umanesimo sconfitto

Pubblicato su Tracce n.4/1986, pp. 45-49.

«All'ideale della santità medievale si sostituisce nell'umanesimo l'ideale della riuscita umana: non più il Dio cui tutto deve confluire in unità armonica, ma il "divo", l'uomo riuscito che conta sulle sue forze.... Tali trasformazioni di mentalità non si sono verificate in modo necessariamente irreligioso. Ma Dio finisce per essere vissuto come una nuvola con sempre minori influssi sulla terra, sempre più copiosamente afferrata e manipolata dall'uomo solo» (Giussani)

Il saggio di Massimo Borghesi La fine dell'epoca moderna, («Litterae» n.3/1986) ha focalizzato, sulla scorta di Romano Guardini, le caratteristiche fondamentali della nostra civiltà nel suo insieme. Il presente contributo intende addentrarsi nel dettaglio di quel periodo che si colloca agli inizi della modernità, il cosiddetto Umanesimo. Con l'ulteriore specificazione, che facciamo nostra al seguito, tra gli altri, dell'attuale cardinale De Lubac, uno dei maggiori teologi del Novecento, che non esiste «una sola modernità». Moderno, cioè, non è sinonimo di «laico» o «laicista». È importante che la cultura cattolica contemporanea l'abbia esplicitato, in quanto il fatto che la storia cammini inesorabilmente verso un «Regno dell'Uomo» totalmente secolarizzato è uno dei maggiori argomenti delle ideologie anticristiane. La storia va in questa direzione, sostengono, e non si può andare contro la storia e contro il suo progresso.

È perciò togliere molto alla forza dell'ideologia mostrare che esponenti vivi e creativi del mondo moderno sono stati dei cristiani assolutamente ortodossi. Se infatti per modernità si intende il predominio esclusivo, unico della cultura laicista, o, ancora più, atea, bisogna dire che la modernità non è mai esistita.

Per limitarci agli aspetti culturali, la modernità non è esistita nel '700, dove accanto ai più chiassosi e ostinati illuministi anticristiani, vi furono luminose figure di intellettuali cristiani (come il Vico). Non è esistita nell'800, dove oltre ai vari Hegel, Comte, Marx, fecero sentire la loro adesione al cristianesimo Kierkegaard, Rosmini, Dostoevskij. Non esiste nel nostro secolo, in cui anzi il pensiero cristiano è l'unico a dare veri segni di vitalità, mentre le filosofie atee si impaludano nel dubbio, nell'assenza senza di certezze e di proposte totali. Tanto meno è esistita una modernità a senso unico (=laicista) nel periodo umanistico-rinascimentale ('400-'500). Questo giudizio non è ovvio.

Molti studiosi laici non vedono nella cultura umanistica che un anticipo dell'antropocentrismo moderno esplicitatosi poi, un anticipo, cioè, dell'affermazione della totale autonomia e autosufficienza dell'uomo, creatore di se stesso. È senza dubbio vero che è esistito un Umanesimo laico, o più esattamente laicista e potenzialmente (ma non solo) anticattolico. È anche esistito però un Umanesimo autenticamente cristiano, che ha assunto in sé le istanze e i valori positivi che il nuovo periodo stava scoprendo, innestandoli nella Tradizione cattolica, comprendendoli all'interno dell'orizzonte dell'ortodossia.

Si tratta di quella che De Lubac, nell'omonimo libro (edito da Jaca Book), definisce «l'alba incompiuta del Rinascimento», e di cui egli esamina uno dei più significativi esponenti, Pico della Mirandola. Vediamo innanzitutto la prima corrente, quella di fatto egemone e la cui eredità si imporrà nell'epoca moderna, l'umanesimo laico-profano. Le più importanti figure sono di Lorenzo Valla, Poggio Bracciolini, Pietro Pomponazzi, Francois Rabelais, Michel de Montaigne. A livello di arti figurative basti il nome del Masaccio.

Consideriamo gli elementi costitutivi di questa corrente. Anzitutto tende a disgregarsi la concezione cristiana dell'uomo. Non che si neghi apertamente la fede: nella stragrande maggioranza gli umanisti si dicono credenti; ma la cultura che essi elaborano emargina il dato rivelato, lo rende qualcosa di accessorio, di sovraggiunto, di non incidente. Si teorizza l'esistenza di un ambito puramente naturale, che non esclude la fede e il soprannaturale, ma lo riduce ad una aggiunta inutile ed estrinseca. A questo, per molti umanisti, serve la riscoperta del mondo antico e della cultura classica, che si avvale anche delle nuove traduzioni dei filosofi greci. Umanesimo laico Tra il '400 e il '500 alcuni pensatori, pur credenti, concepiscono l'uomo come elemento di un ambito puramente naturale. La rivelazione, il soprannaturale non sono negati, ma considerati praticamente accessori. L'unità medievale si spacca: l'uomo ha a che fare con una duplice verità e tende a un duplice fine. Per raggiungere il fine naturale, per realizzarsi in questa vita, bastano le sole sue forze. Emblematica di questa dissoluzione di una cultura unitaria cristiana è la teoria della cosiddetta doppia verità, fatta propria da uno dei maggiori filosofi dell'università di Padova che, con Firenze, era il centro del pensiero umanistico italiano, Pietro Pomponazzi (1462/1524). Questa teoria era già stata esplicitata dal filosofo arabo Averroè, per il quale si sarebbe dato un duplice livello di verità: quello che tutti possono attingere, la fede popolare nella Rivelazione (islamica nella fattispecie) e quello che soltanto i dotti raggiungono, interpretando il dato rivelato, oltre la sua lettera, per coglierne l'intimo significato, puramente e interamente razionale. Così anche Pomponazzi non nega la verità della fede, creduta dal «popolo» e insegnata autorevolmente dalla Chiesa; solo colloca la sua ricerca filosofica su un altro piano, puramente razionale. Ad esempio, che l'anima sia immortale è una verità di fede, la filosofia afferma invece la sua mortalità. Ancora, la Provvidenza è una verità insegnata dalla Chiesa, ma la «verità filosofica» a riguardo è che Dio si disinteressa del mondo e della storia (= ambiti interamente profani). La fede, così, non è più principio di intelligenza, non informa più di sé la ragione, ma è separata da questa, collocata su un piedistallo di esteriore rispetto, in attesa di sbarazzarsene definitivamente. È chiaro infatti che laddove le due verità entrano in conflitto, a prevalere sarà quella, solida e certa, della ragione filosofica. Un altro elemento, proprio all'interno della disgregazione dell'unità culturale di cui si è detto, è la teorizzazione di un duplice fine dell'uomo. Resta, ancora, ma in modo sempre più evanescente, poco credibile e privatizzato, il fine ultimo della beatitudine cristiana, la vita eterna. Prendono invece sempre più corpo altri fini ultimi, altre motivazioni esaurienti dell'agire umano: il piacere, la gloria, l'utile. In una parola si delinea un fine naturale, naturalistico: l'affermazione di sé e del proprio «particolare» all'interno di un orizzonte sempre più esclusivamente terreno. In Lorenzo Valla, ad esempio, troviamo l'esplicita affermazione del piacere come vero movente delle azioni umane. Al piacere sono indirizzate le arti, la politica, la medicina, la giurisprudenza; la virtù stessa è pianificazione del comportamento in vista del maggior piacere; infine la stessa beatitudine eterna altro non è se non piacere (De voluptate, III). Per Poggio Bracciolini, la virtù, che è essenzialmente azione, operosità, deve conquistare i beni della gloria e del benessere, cioè deve raggiungere la felicità essenzialmente terrena. Ambiguo è pure il Petrarca nel porre l'ambizione alla fama e al successo personale come motivi dell'esistenza, accanto ad altri. E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

In terzo ed ultimo luogo ricordiamo l'esaltazione, soprattutto nel primo periodo umanistico, non ancora venato dalla tragicità che sarebbe venuta dalla scissione protestante e dalle sanguinose guerre di religione del '500, l'esaltazione dell'agire, dell'attività umana, avvaletesi di energie naturali. È evidente il nesso con il secondo elemento: se il fine che l'uomo si ripropone è essenzialmente naturale, a raggiungerlo basteranno energie essenzialmente naturali, l'energia dell'azione. Così vediamo Coluccio Salutati (1374/1406), Leonardo Bruni, Leon Battista Alberti, teorizzare il primato della vita attiva rispetto a quella contemplativa. Mentre per la cultura unitaria medioevale l'azione pratica trova la sua sorgente nella contemplazione della Verità e del Bene, che è il fatto di Cristo, si tende ora a staccare l'azione, a renderla autonoma. Il presupposto implicito è che non sia degno di essere «contemplato», conosciuto e studiato, se non ciò che serve alla trasformazione materiale del mondo, per «ben vivere», raggiungendo cioè il piacere e il benessere, e meritandosi così gloria e fama. Il Salutati, in quest'ottica, ritiene che il sapere più alto non sia la teologia, ma quel tipo di sapere «utile» che può alimentare le virtù «attive» e «feconde»: la storia e il diritto. Leon Battista Alberti, a sua volta, esalta l'operosità dell'uomo, fatto non per «marciare oziando» o per «subire passivamente», ma per agire; «l'homo faber», l'umanità attiva e intraprendente, ha il compito di plasmare attivamente la materia, imprimendole la «forma» umana, e vincendo gli ostacoli della avversa «fortuna». In subordine all'attività umana, e volti ad un fine particolare e naturale, vanno visti anche gli studi e le ricerche umanistico-rinascimentali di magia e di astrologia. L'energia che si spera di poter trarre dalle pratiche magiche, o di poter meglio incanalare in seguito alle previsioni astrologiche, è funzionale a un potere dell'uomo, a un suo progetto terreno.

Umanesimo cristiano

Nello stesso periodo, pensatori come Pico della Mirandola, Tommaso Moro e altri negano l'esistenza di due piani e affermano che l'unico orizzonte della cultura è limpidamente affermato nella Verità che è Cristo. Intanto però l'Europa si apprestava a seguire l'altra strada. Ma accanto a questa corrente laico-profana dell'Umanesimo, esiste, abbiamo detto, anche un filone umanistico cristiano: ne sono testimonianze, oltre al già citato Pico della Mirandola, Erasmo da Rotterdam, Tommaso Moro», Giannozzo Manetti (1396/1459) e, se interpretati bene, anche Marsilio Ficino e Nicolò Cusano. A livello di arti figurative basti, anche qui, il solo nome del Beato Angelico. È importante questa tesi perché concorre a togliere ai «laici» il monopolio dell'ideale di umanesimo: esiste, a pieno titolo, e a maggior ragione di quello laico, un umanesimo cristiano. Avvalendoci di quanto padre De Lubac afferma nel suo libro su Pico della Mirandola, confrontiamo le soluzioni di questi a riguardo dei temi che abbiamo visto parlando dell'umanesimo laico. Anzitutto il tema della cultura: se i laici portarono avanti un progetto di scissione culturale (la doppia verità), Giovanni Pico della Mirandola è fedele a un ideale di unità. A questo proposito alcuni interpreti hanno visto in lui un eclettismo, uno stemperarsi dell'identità culturale cristiana in un ambiguo coacervo ultimamente razionalistico. Pico, infatti, aspirava a una pace filosofica e ad una concordia religiosa: a livello filosofico, inserendosi in un dibattito molto vivo tra gli umanisti, egli cercava di mostrare una fondamentale unità tra Platone e Aristotele; a livello religioso, soprattutto negli anni giovanili, progettava una concordia delle religioni monoteistiche (era il tempo della minacciosa avanzata dei Turchi). Ora la pace, la concordia possono essere intese in due modi: o come una sorta di media matematica tra le diverse posizioni, cosicché ciascuna rinuncia alla propria specificità in vista di un compromesso; o come una disponibilità dialogica, ancorata al vero oggettivo, ad integrare il positivo della posizione avversaria e a rinunciare a quanto, nella propria, è frutto di interesse egoistico e particolare, e non di adesione alla totalità. La prima è una soluzione eclettica, pacifista in senso contemporaneo, irenistica. La seconda è una soluzione sintetica. Nella prima si sacrifica la verità all'unità. Nella seconda si fonda l'unità sulla verità. Pico della Mirandola, umanista cristiano, non cerca un compromesso, ma una sintesi, fondata sulla roccia della verità, cioè su Cristo, principio e «legame di tutta la creazione», nel quale Dio ha creato il cielo e la terra. Il cristiano può riconoscere e valorizzare qualsiasi verità e valore positivo, sapendolo appartenente alla Verità.

Che questo, tuttavia, non significhi operare un ambiguo amalgama, dove tutto si confonde e si sbiadisce, lo troviamo confermato anche dalla nettezza con cui Pico condanna gli errori del suo tempo, e in particolare l'astrologia. Era questa, l'abbiamo accennato più sopra, una pratica molto diffusa: persino un cardinale ne faceva gli elogi. Ma la critica di Pico è implacabile; l'astrologia è contraria sia alla fede che alla ragione; essa conduce al fatalismo, negatore della libertà e della responsabilità personale, e consiste in previsioni, spesso tra loro contraddittorie, e puntualmente smentite dall'esperienza. Non esistono quindi due piani: nella concezione di Pico l'unico orizzonte della cultura è limpidamente affermato nella Verità, che è Cristo. Anche per quanto riguarda il fine dell'uomo, Pico, ove lo si legge senza preconcetti (come non sempre è stato fatto), non ha dubbi. L'uomo è chiamato a scegliere tra il suo vero fine, che è la realizzazione di sè conseguendo il bene e divenendo simile a Dio, e quei falsi scopi che Io conducono a divenire simile alle bestie. Ma dove si è soprattutto equivocato il pensiero del conte della Mirandola è riguardo all'energia, che consente all'uomo di raggiungere il suo destino. Basandosi sul testo dell'Orario de hominis dignitate, molti interpreti hanno visto nell'uomo picchiano un precursore dell'uomo «padre di se stesso», autocreatore, precursore delle filosofie antropocentriche contemporanee. Un'umanità che inventa e plasma la propria natura e i valori per i quali agire, liberandosi finalmente dalla sudditanza dell'Altro da sé, da Dio, in completa e totale autonomia. De Lubac smantella, punto per punto, siffatta interpretazione. Anzitutto per Pico l'uomo non crea valori che prima di lui non esistono, ma sceglie tra valori che gli sono dati: sceglie cioè tra l'abbassarsi all'infraumano prendendo vizi che lo imparentano strettamente agli animali, e l'elevarsi al sovrumano, al padre, operando il bene: «Tu potrai degenerare in forme inferiori, animali; tu potrai con la tua propria decisione, essere rigenerato in forme superiori, divine» (Oratio). Mentre l'energia che lo fa scendere al bestiale è interamente sua («potrai degenerare»). La forza per essere innalzato alla vita divina viene donata all'uomo: «potrai (...) essere rigenerato». E, se è innegabile che in questo scritto giovanile prevalga l'entusiasmo per l'autodeterminazione dell'uomo attraverso la libertà, per il suo non essere racchiuso, come gli animali, negli angusti confini della necessità naturale, bisogna ricordare, primo, che Pico non sta parlando dell'attuale stato dell'umanità, ferita dal peccato, ma di Adamo, ancora innocente; secondo, che la Chiesa mai ha messo in dubbio l'esercizio della libera scelta nei confronti del destino. Pico della Mirandola era peraltro ben chiaro nell'affermare che l'uomo, decaduto in Adamo, è bisognoso di redenzione: «l'immagine di Dio è obliterata in noi dalla macchia del peccato (...) Posto sull'orbita dell'universae caritatis ordo, l'uomo si è "disorbitato da se stesso" (...) e da allora si è visto ridotto allo stato di "natura corrotta"». Per cui soltanto nel Cristo è possibile all'uomo ritornare alla propria verità, essere portato all'unità e alla figliolanza di Dio.

Abbiamo esaminato Pico, ma l'esistenza di un umanesimo cristiano è documentabile anche in S. Tommaso Moro, in Erasmo da Rotterdam e in altri pensatori: recenti autorevoli studi di Marc'hadour e L. Bouyer sul primo, e p.G. Chantraine per il secondo, lo dimostrano chiaramente. A meno che non si voglia, sulla base di un preconcetto, ritenere tutte le affermazioni degli umanisti cristiani una maschera, prudentemente indossata in un ambiente arcigno e oppressivo del pensiero... In ogni caso non fu, quella di Pico e degli altri, una posizione culturale egemone. Lacerata dalla crisi protestante, poi dalle guerre di religione, l'Europa avrebbe seguito un'altra strada, quella già abbozzata nell'umanesimo laico, la strada del soggettivismo e della sempre più totale autonomia dell'uomo.